In attesa che venga diramata la consueta Nota Ministeriale con le indicazioni operative per l’accreditamento e le modifiche dei corsi di diploma accademico di primo e secondo livello per il prossimo anno accademico (lo scorso anno uscì il 13 marzo), nelle istituzioni si dà perlopiù per scontato che le modalità e i criteri saranno quelli consueti.

Così come pure consueta sarà presumibilmente la Commissione deputata all’esame delle istanze (quella delle more ormai sessennali); forse per l’ultima volta, data l’imminente entrata in vigore del Regolamento per le elezioni del CNAM.

In realtà, già per le istituzioni autorizzate in base all’Art. 11 del D.P.R. 212/2005, la Nota di quest’anno (1° febbraio 2021) sembrerebbe presentare alcuna novità rispetto ai criteri degli anni passati e alla Nota del 2016 di Mancini: la richiesta che l’esperienza quinquennale risulti dallo statuto e/o dall’atto costitutivo quale attività dell’istituzione privata; la richiesta di allegare all’istanza una proposta di statuto adeguato ai principi organizzativi previsti dal DPR 132/2003 per le Istituzioni AFAM, da attuare entro l’avvio dell’anno accademico successivo a quello della autorizzazione ministeriale. Ma soprattutto: le istituzioni, al momento della presentazione della domanda, dovranno comprovare l’avvenuta conclusione del ciclo triennale allegando copia dei certificati di conseguimento dei titoli per almeno 2 studenti per ciascun corso di cui si chiede l’autorizzazione, allegando altresì la documentazione comprovante il conseguimento – da parte dei medesimi studenti – degli esami di profitto nelle discipline riportate in tali certificati, riferiti a ciascuno dei corsi di cui trattasi con indicate le ore e i crediti (questi ultimi se presenti) per ciascuna disciplina. Novità non da poco.

Per le Afam, e soprattutto per i Conservatori che sono da sempre ben più imbrigliati delle Accademie in fumosi algoritmi (ad esempio il rapporto ore/crediti, rigido benché con forchetta) che talvolta non riescono a contenere e rappresentare la realtà e le necessità della didattica (si pensi ad esempio alle discipline categorizzate come “di gruppo” per indicare con consapevole imprecisione una via di mezzo tra l’individuale e il collettivo), la maggior curiosità riguarda una possibile maggior flessibilità nella definizione o non definizione all’interno degli ordinamenti, nuovi o da modificare, delle discipline integrative/affini. Questo alla luce del D.M 133 del 2 febbraio scorso (Modifica delle linee guida allegate al D.M. n. 386/2007 – Flessibilità dei corsi di studio) rivolto alle Università.

Nell’intento «di valorizzare l’autonomia universitaria nella determinazione degli ordinamenti didattici dei corsi di studio per quanto attiene alle attività formative affini o integrative e consentire una maggiore flessibilità nella determinazione dei percorsi formativi», vi si stabilisce che:

  1. Le Istituzioni universitarie, nella loro autonomia, definiscono le attività affini o integrative, di cui all’articolo 10, comma 5, del regolamento adottato con decreto 22 ottobre 2004, n. 270, nel regolamento didattico del corso di studio, in coerenza con gli obiettivi del percorso formativo. Nell’ordinamento didattico sono esclusivamente indicati i CFU complessivamente assegnati a tali attività.
  2.  Possono far parte delle attività affini o integrative tutte le attività formative relative a settori scientifico-disciplinari non previsti per le attività di base e/o caratterizzanti, come definite dai decreti ministeriali di determinazione delle classi di laurea e delle classi di laurea magistrale, che assicurino una formazione multi e inter-disciplinare dello studente.
  3. Le attività formative affini e integrative possono essere organizzate sotto forma di corsi di insegnamento, laboratori, esercitazioni, seminari o altre attività purché finalizzate all’acquisizione di conoscenze e abilità funzionalmente correlate al profilo culturale e professionale identificato dal corso di studio.

Potrebbe essere questo un auspicabile piccolo passo verso una maggiore “valorizzazione” dell’autonomia così spesso rivendicata delle nostre istituzioni? Si saranno spesi i nostri “rappresentanti” per ottenerlo?

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