[…] E così noi ci troviamo incerti e perplessi dinnanzi al problema dell’istruzione musicale, come dinnanzi a un rigido punto d’interrogazione.

Io non intendo riferirmi all’insegnamento privato. Parlo invece dell’educazione che si forma nei nostri Conservatorii di musica e precisamente in quelli posti sotto l’egida dello Stato. L’istituto del Conservatorio, che alcuni, un po’ curiosi in questa loro parodia di un’idea del Nietzsche, voglio vedere come prodotto della troppa maturità e forse del regresso della musica italiana, da arte diventata esercizio ed accademia, ha reso tuttavia, in una mutata condizioni di cose, i suoi benefizi, e di esso può giovarsi ancora, come per il passato, la vita artistica del paese. Ci si ricorda tuttavia insistentemente che i più grandi artisti nulla dovettero al Conservatorio, ed è vero; ma è vero altresì che, nel concetto ordinatore dell’istituto musicale, non sono le nature specialmente dotate che prevalgono, ma bensì la massa dei giovani intelligenti, che agli studi vanno per cercarvi un’arma di difesa nella lotta per l’esistenza, un appoggio, una professione. Nel Conservatorio si entra come nell’Università, col medesimo scopo; ma come differentemente vi si trovino e quanto male in arnese ne escano oggidì, lo sanno gli allievi, e, se lo vogliono dire, anche i professori.

L’istituto del Conservatorio non traversa oggi la fase migliore della sua esistenza; esso vegeta e non risponde a fini artistici, e questo autorizza l’opinione che l’intero suo complesso dovrà essere radicalmente alterato. La mancanza di serii provvedimenti sta per essere vendicata a buon conto, e in breve il dilemma si presenterà nettamente così: o riforma radicale dei Conservatorii di musica o la loro chiusura, visto che essi sono inutili, anzi dannosi, come focolari della peggiore specie di proletariato.

Il Conservatorio, per andar dritto al suo fine, dovrebbe offrire allo studente il mezzo di fortificarsi, di specializzarsi, senza divagazioni inutili, nel ramo dell’arte prescelto. Veramente questo si fa anche, in Italia, ed in Italia forse meglio che altrove, p.e. meglio che in Germania, dove lo studente s’occupa di troppe cose in una volta, restando, nel più dei casi, al disotto del mediocre in tutte. Se non che il musicista italiano, non ostante la sua specializzazione meno imperfetta, resta inferiore alle esigenze del mercato.

A questo proposito, non solamente non nego che, ad evitare simile inconveniente, ed in genere per riuscire a buon esito, non possa servire lo studio privato in concorrenza con la scuola pubblica; ma anzi, tutto il contrario, lo ammetto benissimo e lo consiglierei sempre, visto che l’uno e l’altra, isolatamente, non sono, secondo me, bastevoli a formare una solida educazione musicale. È certo tuttavia che dov’è obbligo comune, dov’è stimolo cagionato dall’esempio e dal confronto, dove sono facoltà complete e ordinate, unità d’indirizzo e pratica alternata a teoria, le menti dei giovani, eccitate dall’emulazione e con l’esercizio molteplice e continuato, si fanno più acute, si quadrano e rafforzano maggiormente. Quindi, a parità di meriti e condizioni, io non esito a preferire la scuola pubblica.

(continua)

 

LUIGI TORCHI, L’educazione del musicista italiano, in «Rivista Musicale Italiana», IX, 1902, pp. 889-902

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