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Parlo della grande massa dei dilettanti, che si ha l’abitudine di considerare come quantità trascurabile, o peggio, mentre sono essi che formano l’opinione pubblica musicale del paese. Sono essi che impongono al paese un climax musicale proporzionato alla loro coltura. Elevare questa coltura dei dilettanti equivale quindi ad elevare l’arte. Equivale, anzi, a concedere all’arte le sue ragioni di vita.

Oggi nei Conservatori si crea malamente ogni anno una piccola accolta di artisti, per poi  lanciarli in mezzo ad una folla di selvaggi della musica, educata all’ultima canzone di Piedigrotta o al valzer dell’operetta viennese più in voga. Chi non vuole e non può fare l’apostolo, si acconcia facilmente fare il mercante; ottimamente coadiuvato in questo dagli editori, che vanno sempre alla ricerca del successo, e dai critici, che quasi sempre lo giustificano e vi si inchinano.

D’altronde non basta neppure il gesto nobilissimo, ma isolato, di un rivoluzionario, a spingere d’un balzo l’arte più innanzi verso quell’ideale di perfezione e di bellezza cui essa tende incessantemente. Non basta il gesto di un rivoluzionario, se esso cade in un ambiente impreparato.

Succede per le rivoluzioni musicali quello che succede per le rivoluzioni politiche. Esse sono fatalmente seguite da reazioni, che ritardano di anni ed anni, o rendono magari vani gli effetti del benefico sforzo. E i progressi più proficui e duraturi non si ottengono con le imposizioni violente, ma coi lenti e pazienti processi di penetrazione.

Se noi vogliamo, perciò, un’Italia musicale non indegna delle sue gloriose tradizioni, e che sappia tener fronte alla prepotente invadenza dell’arte straniera, non dobbiamo contare sull’individuo, e aspettare la rivelazione messianica del genio, che dovrà rialzare le sorti della nostra musica. Non dobbiamo contare sull’individuo, ma sulla elevazione della coltura musicale della massa.

Questa elevazione non si otterrà che in parte coi teatri e coi concerti; manifestazioni sporadiche, soggette esse pure ai capricci della moda, o, peggio, agli interessi dei faccendieri dell’arte. Si otterrà invece sicuramente colla scuola; coll’insegnamento della musica nei Conservatorî, non più limitato a pochi musicisti, ma esteso alla portata di tutti. Colla trasformazione, in una parola, del Conservatorio in Università musicale.

Conservatorio e Università musicale sono due concezioni affatto opposte. L’una rappresenta i gretti bisogni e le ristrette idealità dei tempi passati. L’altra investe, invece, tutto un ordine nuovo di idee, e si fonde mirabilmente colle molteplici correnti della nostra espansione intellettuale.

Tra le due concezioni scelga ora chi ha coscienza delle esigenze culturali e delle aspirazioni artistiche della nuova Italia.

 

 

GIACOMO OREFICE, Conservatorio o Università musicale? in «Rivista Musicale Italiana», XXV/3-4, luglio-dicembre 1918, pp. 462-480

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