Intervento presentato a Milano il 6 giugno 2017 in occasione dell’incontro “Prospettive per l’AFAM”.

Il presente intervento vuole essere un racconto, più che una illustrazione tecnica e ordinata, della esperienza maturata negli ultimi tre anni al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Esperienza che non esito a definire avventurosa e il cui modello non so neppure se possa essere esportato. Ad ogni buon conto, ritengo che il percorso intrapreso per realizzare il nostro esperimento contenga spunti di lavoro e -forse- qualche idea che vale la pena di essere condivisa, anche al fine di avviare una riflessione generale sugli  «OperaStudio», argomento tanto interessante quanto trascurato in Italia.

Attraverso la mia esperienza professionale ho avuto modo di venire a contatto con realtà formative e produttive svizzere, tedesche, britanniche, giapponesi, coreane e statunitensi. Gli OperaStudio di quei paesi hanno molte differenze fra loro, ma sono accomunate da una caratteristica: sono imprese bicefale in cui giovani allievi di canto teatrale frequentano mediamente uno/due anni un corso di specializzazione gestito da un istituto di alta formazione e debuttano titoli nel cartellone di un teatro partner del territorio. Il debutto può riguardare ruoli protagonisti (solitamente seconde compagnie), molto spesso ruoli comprimariali e talvolta anche compagini corali. A seconda delle dimensioni, a fianco dei corsi per cantanti possono essere attivati anche indirizzi per maestri sostituti, professori d’orchestra, direttori d’orchestra, registi. In ogni caso le giovani maestranze degli OS vengono contrattualizzati per gli spettacoli con scritture professionali a costo contenuto o con borse di studio diventando perciò le prime concrete occasioni d’inserimento in ambito produttivo organizzato e altamente professionalizzato.

Le istituzioni di governo promuovono gli OS attivandone i programmi presso le strutture scolastiche preposte. I teatri coinvolti possono in questo modo beneficiare di sovvenzioni apposite. In taluni casi sono addirittura obbligati -pena il decadimento di parte dei contributi- a riservare parte dei contratti e della programmazione agli OS. È da dire, infine, che spesso questi percorsi vengono in ogni caso percepiti dalle istituzioni teatrali come risorse artistiche di buona qualità a cui attingere, anche al fine di contenere i costi.

In buona sostanza, in molti Paesi gli OS saldano due necessità -economia di spesa e praticantato artistico- altrimenti separate.

In Italia, paese in cui l’opera è nata e costituisce imprescindibile patrimonio culturale, gli OS non esistono. Perché?

Innanzitutto ci si scontra con una diffidenza storica delle imprese di spettacolo: i teatri pubblici[1] non sono mai stati incentivati a realizzare alleanze organiche con i conservatori di musica. E c’è da dire che neppure il pubblico, storicamente molto polarizzato e reattivo, è culturalmente predisposto ad un’offerta caratterizzata da maestranze esordienti. Il panorama negli ultimi lustri è profondamente mutato, e come conseguenza dei tagli al Fondo Unico Spettacolo e di una crisi finanziaria permanente, le Accademie annesse alle Fondazioni Lirico Sinfoniche hanno cominciato ad acquisire nei cartelloni degli “enti-madre” un’evidenza del tutto impensabile fino alla fine del secolo scorso. Il fenomeno è tutt’ora in atto e in via di incremento, con risultati molto differenti a seconda delle piazze.[2]

Ma, al di là delle quattordici Fondazioni Lirico-Sinfoniche che hanno mezzi e convenienze per sostenere Accademie autonome, rimane incolto un enorme terreno rappresentato da ventinove Teatri di Tradizione, da molti Festival e dalle residue Imprese Liriche. Eppure le due necessità sopra citate (l’indebolimento economico dei teatri e il praticantato artistico degli allievi di conservatorio) sono fenomeni in progressiva crescita in questi anni di contrazione economica.

Né i conservatori sono esenti da colpe sull’aergomento: sembra paradossale, ma anche i i nostri istituti storicamente non hanno fatto a gara per interessarsi a forme di OS. I motivi sono molti. Basti pensare, ad esempio, alla centralità data alla pratica strumentale rispetto al teatro musicale, nonostante la lirica rappresenti per il musicista praticante la quasi totalità delle possibilità occupazionali. Si pensi poi ai limiti normativi che hanno governato i conservatori fino alla legge 508. Si osservi come la vecchia organizzazione del Conservatorio in “Scuole” di strumento e canto, rigidamente separate, abbia significamente osteggiato -negli anni- le progettualità trasversali. Si consideri, infine, come un monte ore angusto e senza risorse aggiuntive incentivi implicitamente l’invariabilità dell’offerta.

Tutto ciò ha avuto come esito un colpevole, evidente, immobilismo. Immobilismo che non ha prodotto danni irreversibili fin quando è sopravissuta una pratica teatrale viva e diffusa sul territorio (il bacino di riferimento prevalente era quello dei teatri di tradizione) che consentiva ai giovani migliori l’attuazione di percorsi “di bottega” per la crescita graduale. Oggi però diagnostichiamo l’agonia di tale sistema: i tempi di produzione sono talmente ristretti che i giovani dovrebbero cominciare a lavorare con abilità di base nemmai sperimentate. E non bisogna neppure sottacere che le direzioni artistiche sovente si adagiano su comode pratiche monopolistiche di casting che consentono di rischiare poco a fronte di impegni di selezione nulli.

L’assenza di opportunità per gli esordienti, coniugandosi alla scarsità di risorse del sistema produttivo, crea addirittura percorsi surrettizi agli OperaStudio: tali sono le fioriture incontrollate di pseudo accademie che garantirebbero (almeno sulla carta) il debutto; tali sono quei concorsi che, in taluni casi, si sono trasformati in vere agenzie di collocamento artistico low-cost. Tutto questo nel disinteresse dei Conservatori di Musica.

E l’impatto economico e sociale del settore non sarebbe neppure così trascurabile. Infatti, nel momento in cui i livelli di occupazione teatrale stabile in Italia crollavano, si aprivano nuove opportunità d’impiego interessanti dal punto di vista numerico, con maggiori unità impiegabili rispetto al passato. In sostanza, di fronte alla contrazione economica, la protezione corporativa -che tendeva a replicare uniformemente scelte di casting nei cartelloni delle diverse città- si è aperta, lasciando maggiori spazi di inserimento per i giovani.

Partendo da tali premesse, ci si troverebbe dunque al cospetto d’un vero e proprio enigma labirintico: all’esterno si pone una domanda virtualmente consistente (il mondo del teatro lirico istituzionale) mentre al centro è imprigionata una offerta oggettivamente ricca (gli allievi delle nostre istituzioni). In mezzo si trova un contesto che si dimostra aggrovigliato perché non progettato per funzionare come sistema. La soluzione potrebbe dunque essere il districo del contesto da parte dei Conservatori, che dovrebbero assumere l’iniziativa del collegamento fra dentro e fuori. Come uscirne?

Parafrasando Umberto Eco,[3] errore comune è cercare la strada pensando il labirinto. Bisogna piuttosto pensare col labirinto e dentro al labirinto: è infatti impossibile uscire quando si pensa il modello di pensiero del labirinto, creato per disorientare. Dedalo, il maestro del labirinto, metteva alla prova quella particolare forma d’intelligenza che in Grecia chiamavano mètis:

«quel tipo particolare di intelligenza che, invece di contemplare essenze immutabili, si trova direttamente implicata nelle difficoltà pratiche, con tutti i suoi rischi, di fronte a un universo di forze ostili, sconcertanti perché sempre mutevoli e ambigue. È un’intelligenza impegnata nel divenire»[4] che si concentra «sull’efficacia pratica, sulla ricerca del successo nel campo dell’azione: molteplici abilità utili alla vita, perizia dell’artigiano nel suo mestiere, artifici magici, uso di filtri e di erbe, stratagemmi di guerra, inganni e finzioni, astuzie di ogni genere».[5]

Tralasciando (forse) le arti magiche e i filtri d’erbe, tutti coloro che si destreggiano nella palude istituzionale, legislativa e procedurale italiana sanno di dover adoprare quotidianamente la mètis per ottenere un qualsiasi risultato. A meno che non ci si adagi in un contesto che non ci soddisfa o ci si fermi, annegando nell’inazione.

Ma, per ragionare col labirinto, bisogna dire che -nel frattempo- il caso, la tyche, sembrava aver disposto alcune pedine interessanti. Innanzitutto, la legge 508 (Art. 2 comma 4) stabilisce che i Conservatori di musica sono «sedi primarie di alta formazione, di specializzazione e di ricerca nel settore artistico e musicale e svolgono correlate attività di produzione». In questo comma troviamo un profondo cambiamento rispetto al passato. Fino alla 508 si era essenzialmente soggetti alle funzioni delineate dal Regio Decreto 31 dicembre 1923, n. 3123 (Art. 4): «Le scuole ed istituti d’arte hanno il fine di addestrare al lavoro e alla produzione artistica». Non v’è chi non possa comprendere la sostanziale differenza tra “addestramento alla produzione” e “produzione”. Alla lettera, perciò, i Conservatori con la 508 hanno assunto -fra l’altro- compiti in qualche misura sovrapponibili (e non semplicemente tangenti) a quelli dei teatri, dei festival, delle stagioni musicali e società di concerti. Certo, si tratterebbe di specificare meglio il significato esatto del sostantivo “produzione”, concetto superficialmente dato per acquisito e stabilizzato nella nostra epoca: in maniera semplicistica, nel caso di OS si può parlare di produzione quando il soggetto (in questo caso l’istituzione conservatorio) crea un oggetto (il prodotto artistico) con un valore (non necessariamente economico e materiale) innestabile nel segmento di mercato del teatro partner (il pubblico delle sue Stagioni operistiche). Va da sé che, con tale impostazione, la produzione assume un profilo esorbitante rispetto al “saggio del conservatorio” curricolare, il quale -in ogni caso- rimane elemento imprescindibile nella formazione di tutti gli allievi (con funzione di addestramento).

Fatta questa premessa, e detto a chiare lettere che la 508 è la tipica “riforma italiana a costo zero”,[6] e che i conservatori non hanno risorse economiche e strumentali che consentano di sostenere vere produzioni teatrali,[7] bisogna aggiungere che nel 2014 la riforma Bray del Mibact[8] gettava i semi per incentivare pratiche innovative nell’offerta artistica delle istituzioni finanziate attraverso il FUS. In particolare, nella nostra ottica, risultano molto interessanti i criteri di valutazione delle programmazioni -divenute, tra l’altro triennali- dei Teatri di tradizione esplicitati nell’Allegato B, alla Tabella 12[9].

ASSE OBIETTIVO STRATEGICO OBIETTIVO OPERATIVO FENOMENO
PROGETTO 1. Qualificare il sistema di offerta Sostenere la qualità del personale artistico Qualità della direzione artistica
Qualità professionale del personale artistico e/o degli artisti ospitati
Sostenere la qualità del progetto artistico Qualità artistica del progetto
Innovare l’offerta Innovatività dei progetti e sostegno al rischio culturale
Organizzazione di corsi e concorsi
Stimolare la multidisciplinarietà Multidisciplinarietà dei progetti
2. Sostenere, diversificare e

qualificare la domanda

Intercettare nuovo pubblico Rapporti con università e scuole e avvicinamento dei giovani
Incrementare la capacità di fruizione Interventi di educazione e promozione presso il pubblico
Apertura continuativa delle strutture gestite
SOGGETTO

 

9. Valorizzare l’impatto mediatico e il progetto di promozione Rafforzare la strategia di promozione Strategia di comunicazione (sito internet, campagna di comunicazione, nuovi media e social network, dirette streaming degli spettacoli, ecc. )
10. Sostenere la capacità di operare in rete Incentivare reti artistiche e operative Integrazione con strutture e attività del sistema culturale
Sviluppo, creazione e partecipazione a reti nazionali e internazionali

La tyche in quel periodo sembrava perciò volgere all’ eutychìa, per dirla con Aristotele: nel medesimo scorcio di mesi, infatti, il direttore artistico del Teatro Comunale di Treviso stabiliva di inserire nella stagione d’opera autunnale la ripresa d’uno spettacolo allestito dal Conservatorio di Venezia e andato in scena per la prima volta nel cortile monumentale di Palazzo Pisani. Si trattava dell’ “opera cinese” in un atto Il gioco del vento e della luna del compositore Luca Mosca, scritta appositamente per un gruppo (francamente formidabile) di allievi presenti nella istituzione quell’anno accademico.

Fernanda Girardini e Paolo Ingrasciotta
ne Il gioco del vento e della luna, Treviso, dicembre 2015

Nel 2014 a Venezia già esisteva, dunque, un tavolo in cui Teatro di tradizione e  Conservatorio ragionavano di produzione ed allestimento. Quando è entrata in vigore la riforma, assieme al direttore artistico del teatro Gabriele Gandini e al direttore del Conservatorio Franco Rossi abbiamo intuito che, mettendo al servizio l’uno dell’altro risorse già presenti nelle reciproche programmazioni, avremmo potuto rispondere a molti dei requisiti indicati dal decreto Valore Cultura. Le risorse (evidenziate graficamente con sfondo bianco) riguardano sia l’asse del “progetto” sia quello del “soggetto”, toccando a titolo diverso tutti e quattro gli obiettivi strategici. Non entro nel dettaglio, ma è evidente che un conservatorio di musica italiano nel campo dei titoli rari e della musica contemporanea, nel settore della educazione, nella partecipazione a reti nazionali ed internazionali, nella specificità dei suoi contatti, possiede un notevole patrimonio che un teatro può costituire solo mettendo in campo onerosi investimenti a lungo termine. Evidente, dunque, il vantaggio -anche di carattere economico- che ad un teatro in sintonia con la riforma Bray deriverebbe da un’alleanza organica con un conservatorio.

Coraggiosamente, le due istituzioni hanno perciò pensato di realizzare un protocollo di collaborazione riguardante sei  titoli in tre anni (tre di repertorio e tre contemporanei, di cui due nuove commissioni): Il gioco del vento e della luna (Luca Mosca), Convenienze e inconvenienze teatrali (Gaetano Donizetti), Aura (Luca Mosca), Giovedì grasso/campanello (Gaetano Donizetti, nuova trascrizione dall’autografo), Atlas 101 (Giovanni Mancuso) e Cecchina o sia la buona figliola (Niccolò Piccinni). Nel 2017 -in via sperimentale- il protocollo si è addirittura esteso al coro e ai comprimari degli altri titoli del cartellone trevigiano. In parallelo continuavano anche le coproduzioni (due titoli per anno) con la Fondazione del Teatro La Fenice: Le Cinesi (Cristoph Willibald Gluck), Il ritorno dei Chironomidi (Giovanni Mancuso), Giulietta e Romeo (Niccolò Zingarelli), Barabau/L’Aumento (Vittorio Rieti e Luciano Chailly). Per ordinare tutta la materia, e per mettere a sistema l’intensa attività di produzione programmata, si è dunque deciso di denominarla OperaStudio del Conservatorio Benedetto Marcello, con l’implicito vantaggio di rendere immediatamente riconoscibile, all’esterno, questo tipo di attività, molto qualificante. Voglio aggiungere che la progettualità è stata premiata dal Mibact con un innalzamento della quota annuale FUS al teatro di Treviso, e che il Conservatorio di Venezia ormai percepisce come assett strategico OS, mentre gli allievi migliori si vedono riconosciuti veri e propri contratti professionali che costituiscono incentivo alla crescita individuale e avvìo alla professione.

Lo sforzo -ancora abbondantemente in corso- è di regolamentare OperaStudio, che nel frattempo è stata riconosciuta dal Consiglio Accademico del Conservatorio di Venezia anche sotto la specifica di “Corso libero”.

Due, a mio avviso, le criticità principali emerse da questi tre anni di esperienza: 1) la compatibilità con il rigore dei calendari di lezione degli allievi; 2) la tecnica di selezione, che deve contemperare (fin dalla scelta del titolo) la necessità di qualità artistica del teatro partner con la necessità di centralità delle maestranze di provenienza interna. La sfida quotidiana è appunto quella di riuscire a realizzare un buon equilibrio fra le due componenti, tale da non deprimere l’offerta artistica né snaturare le peculiarità delle scuole interne al Conservatorio.

In apertura sollevavo dubbi sulla esportabilità del modello: l’intraprendenza del Conservatorio di Venezia ha spinto a trovare una via d’uscita, ma sembra che il contesto esterno, il labirinto, stia nuovamente per mutare. Parrebbe infatti intenzione dell’attuale governo Gentiloni approvare una nuova legge sulla musica, e non sappiamo se la provvida impostazione di Bray in materia di triennalità e contenuti verrà riaffermata.

Certo: sarebbe troppo sperare in un provvedimento congiunto a favore degli OperaStudio che faccia colloquiare Mibact e Miur e che riconosca valore istituzionale a questi percorsi, anche in termini di razionalizzazione. Dunque rimaniamo in attesa di capire, augurandoci di non dover ancora attingere a quelle preziose riserve di mètis che giacciono in ogni docente di Teoria e tecnica dell’interpretazione scenica.

Francesco Bellotto

 

[1] Faccio riferimento alla pur sempre vigente categorizzazione della legge 800 del 1967 e della legge 163 del 1985.

[2] Voglio qui citare, per esempio, due casi di eccellenza: l’Accademia della Scala di Milano e l’Accademia del Maggio musicale fiorentino dove le sensibilità accese di personalità come quelle di Alexander Pereira, Gianni Tangucci e Pierangelo Conte hanno organicamente aperto agli allievi accademici il casting delle produzioni maggiori.

[3] Cfr. la prefazione al libro di Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti, Frassinelli

[4] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Bari, Laterza, 2005,  p. 33.

[5] Ibidem, p. 3.

[6] Intendo con questa locuzione un provvedimento legislativo che assegna alle istituzioni nuove funzioni e compiti senza peraltro provvedere al finanziamento dei nuovi segmenti di pertinenza.

[7] La situazione classica che i docenti di Teoria e tecnica dell’interpretazione scenica devono affrontare quando si progetta un allestimento è di dover noleggiare tutto quel che esula dalla sfera puramente artistico/musicale, a cominciare dallo spazio, passando per i tecnici e le attrezzature, senza ovviamente tralasciare quanto indispensabile al decoro scenico, costumi e financo le minute attrezzerie. Gli OperaStudio nordamericani e giapponesi, ad esempio, hanno invece a disposizione dei veri e propri teatri con maestranze e magazzini operativi.

[8] Legge voluta e delineata dal ministro Massimo Bray nel 2013 e divenuta decreto con titolo “Valore Cultura” nel 2014, sotto il ministero Franceschini.

[9] D. L. 1 luglio 2014: Nuovi criteri per l’erogazione e modalita’ per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo unico per lo spettacolo, di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163, GU Serie Generale n.191 del 19-08-2014, Suppl. Ordinario n. 71, p. 51.

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